Angoscia e Midollo spinale

Saggezza midollare

“L’angoscia è dunque, in primo luogo, un qualche cosa di sentito. Noi la chiamiamo uno stato affettivo, benchè non sappiamo neppure che cosa sia un affetto. Come sensazione, essa ha – nel modo più palese – carattere spiacevole, ma ciò non esaurisce la sua qualità: non possiamo chiamare angoscia ogni dispiacere (…).
Il suo carattere spiacevole sembra avere una caratteristica particolare, difficile da provare, ma verosimile: mancherebbe di qualsiasi elemento particolarmente vistoso. Ma oltre a questo carattere peculiare, difficilmente isolabile, noi avvertiamo nell’angoscia determinate sensazioni corporee, che riferiamo a organi specifici (…).
Ci basta mettere in evidenza singoli rappresentanti di queste sensazioni, cioè quelli che interessano gli organi respiratori ed il cuore: essi ci provano che innervazioni motorie, e quindi processi di scarica, prendono parte al meccanismo generale dell’angoscia”. (Inibizione, sintomo e angoscia, S. Freud – 1925).

Di fronte allo sgomento spesso cerchiamo conforto nella scienza. Al bisogno avevo a disposizione solo un libro di biologia, ma tanto basta. Sempre meglio che leggere Freud, che resta sempre il migliore, ma non certo se sei alla ricerca di rassicurazioni.
Leggo dunque che il nostro corpo, o chi per Lui, ha pensato a tutto. Ha deciso che se mai nel nostro piede nudo si conficcasse un chiodo, allora un recettore di Senso posto nella pelle registrerebbe il dolore della puntura. Lo stesso recettore di senso, tramite un altro innocente e vivido neurone sensitivo, farebbe subito arrivare l’impulso al midollo.
Il midollo è come il salvavita, un meccanismo perfetto che fa bloccare il sistema quando rintraccia l’errore. Come la lamella nel telaio. Il midollo è il babbo buono, ci guarda da lontano, ci fa cascare, scuote la testa, ci aiuta a rialzarci e ci disinfetta il ginocchio sbucciato, bofonchiando raccomandazioni per il futuro. È dentro il midollo, dentro il babbo buono, che si trova tale “neurone di associazione”, una vecchia segretaria che conosce tutte le bizzarre abitudini del suo superiore. Infatti, appena ascoltato il midollo, il neurone di associazione alza gli occhi al cielo e trasmette l’informazione “dolore” al neurone motorio.
Quest’ultimo è decisamente il meno nobile benchè fattivo: un bagnino muscoloso e stupido, che prontamente si getterà in mare nel tentativo di salvarci. Si aggrapperà al primo altro muscolo che trova nella corsa, facendolo contrarre. Solo allora, finalmente, riusciremo a sollevare il nostro piedone, proprio un secondo prima che il nostro cervello lento e tanto caro, se ne renda conto.
È in questo punto della storia che il mio libro di biologia riesce a stupirmi con una conclusione tanto bella che nemmeno sembra sua: “tutto ciò avviene senza che sia coinvolto il cervello, che reagisce al dolore solo più tardi”. Mi rallegro profondamente e rendo grazie per il Midollo. Lui ci conosce bene, sa bene che se vuole evitare un problema grave, l’ultimo che deve interpellare è il cervello.
Il cervello è un organo di rappresentanza. Buono per mandarlo ai congressi, ma quando c’è da sbrigarsela, lasciatelo perdere. Il midollo lo sa, lui è uno di campagna. Quando c’è bisogno lui avverte tutti quelli che sapranno rendersi utili, neuroni di cuore, che gli ubbidiranno anche senza capire. Si fidano. Il cervellone di solito arriva a questo punto. A cose fatte, quando noi abbiamo in mano il piedone sanguinante. Di solito il cervello arriva borbottando, si lamenta perché è sempre l’ultimo a sapere le cose. Patetico vecchio, non si accorge che mentre borbotta, tutto è già finito.
In compenso avrà tanto materiale per scriverci sopra un articolo.

Angstbedingung. L’accompagnatrice, colei che fa strada

Lo spieghino i signori psicanalisti il perché di questa strana associazione tra midollo e angoscia. Perfino agli psicanalisti sarà evidente che se non fosse per il Buon Midollo saremo sempre lì, col chiodo infilato nel piede, a chiederci perché mai non ci siamo messi le scarpe o perché il chiodo fosse proprio lì o di che misura fosse. Così, se non ci fosse l’angoscia (questa “spinta continua, questo lancio di segnali talvolta drammatico ed insidioso”) chi o che cosa salverebbe l’uomo dalla “follia dell’assoluto”?
Il midollo e l’angoscia sono una coppia di reazionari, di quelli seri, consapevoli, quelli da riunioni private nelle cantine, non sono manifestanti da piazza. Agiscono da clandestini, troppo scafati per credere ancora alle promesse vaghe dei piani alti, troppe esperienze per lasciarsi ancora sedurre dai compromessi. Da buoni reazionari hanno inventato anche un codice segreto, un linguaggio sconosciuto al cervello. Il lamento dell’angoscia non ha parole per il cervello (non che a lui interessi).
Angoscia e midollo sono da tempo passati alle cattive maniere, non per scelta, solo per sfinimento. Come ogni rivoluzionario stremato che si rispetti, l’angoscia ha impugnato il fucile, dopo aver invano usato prima la parola, poi la carta e la penna. Il cervello continua a fare il superiore, sminuisce le rimostranze, non dà peso ai colpi di fucile che riecheggiano. Numero di manifestanti trascurabile (dati della Questura).
Quindi chi è l’angoscia? Una rivoluzionaria? Una eroina? Una vecchia nostalgica? Il male? Niente di tutto questo. È una voce che chiede di essere ascoltata, e la storia è lunga.
Freud (lui si che sapeva ascoltare, ne aveva anche il tempo, a onor del vero) indica l’angoscia come arma messa a disposizione dell’Io (povero Io), per poter provvedere all’espletamento del suo unico compito: auto conservarsi (ridicolo!).
Il padre della psicanalisi, vecchio buongustaio, aveva individuato nell’angoscia una primizia. Questo maledetto “surplus di desiderio” (ebbene si) sarebbe addirittura funzionale alla autoconservazione, sarebbe necessario per la manutenzione del pesante Der Apparat (nostro Signore, il Corpo).
Angoscia dunque come spinta incontenibile di desiderio, avida, prepotente, invadente, una amante frustrata, bella e incredibilmente determinata. Questa amante impavida è un pungolo che risveglia, uno strappo che rinnova, un’ondata che svecchia. Un motore.
È un argano che spinge a rialzarsi l’imbarazzante elefantone rosa che è il nostro Io, che non vede l’ora di sdraiarsi e lasciarsi morire da qualche parte. È il desiderio dell’angoscia che ci fa rialzare. Saremo pure pesanti, ma non possiamo proprio resistere al richiamo perforante di un desiderio come quello che si trova nel grido offeso e straniero dell’angoscia.

Quando Io era giovane

“L’angoscia ha una innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e dinnanzi a qualcosa. Possiede un carattere di indeterminatezza, di mancanza di oggetto. Nel parlare comune, quando essa ha trovato un oggetto le si cambia di nome, e lo si sostituisce con quello di paura”. (Inibizione, sintomo e angoscia, S. Freud – 1925).

Quando l’angoscia era giovane era molto diversa, ebbene sì. Nessuno nasce con le rughe (le pieghe della pelle che trattengono la rabbia). Appena nata la piccola angoscia era solo (per modo di dire) la “risposta alla percezione del pericolo di inermità psichica”. Così piccola ma già pretenziosa. Nessuno nasce per essere già inerme, infondo! Passano pochi anni e la nostra angoscina già si imbratta con un po’ di umanità, diviene “risposta alla minaccia di perdita oggettuale” – leggi “risposta alla minaccia di perdita dell’amore”. Non vi fate ingannare, angoscia non è mai stata una romantica, nemmeno da preadolescente, è solo che l’amore è necessario per la sopravvivenza, sopratutto da giovani (forse è per questo che continua ad affascinarci per sempre).
Con queste belle premesse arriviamo alla fase meno nobile della vita della angoscia, la fase della angoscia come “risposta al pericolo della castrazione”. Che scivolone, dopo tante parolone, premesse esorbitanti, siamo alla fase trash (angoscia ancora aggi ammanta di vergogna a rivedersi nelle foto che la immortalano quando temeva per la castrazione). Ma perché negare? Poi, se proprio vogliamo dirlo, quella che è davvero imbarazzante è la fase successiva: l’angoscia morale. Levatevi dalla faccia quei sorrisini sprezzanti, ci siamo passati tutti (dovevamo pur bilanciare l’ammanco di eleganza della paura della castrazione).
Dopo l’illusione dell’amore, l’illusione della moralità, tipico del primo adulto. Questi sono i vezzi di cui amiamo ricoprirci, fino a che la nostra vecchiaia non ci sveste dagli orpelli e ci insegna il gusto del nudo, la lava della verità. Sta di fatto che, pur cambiando di foggia, quel che resta sempre vero se si parla di angoscia è che lei è una risposta. Per tutto il tempo, lei è una semplice risposta (alla domanda di qualcun altro).
Inutile, dunque, che ve la prendiate con lei quando viene, non esiste risposta se non a seguito di una domanda, quindi esiste sempre un interlocutore dell’angoscia (è una ragazza di buona famiglia, non si relaziona se non interpellata). Forse possiamo dibattere sui toni della risposta, lei ama stupire, ama essere inquietante. Di solito è la risposta che non vorremmo mai sentire (anche se non smettiamo mai di fare quella domanda). Lei, beffarda, sa sempre cosa dire. Indica proprio il punto caldo.

Niente di nuovo sul fronte occipitale

“Sia come fenomeno automatico, sia quale segnale di salvataggio, l’angoscia appare il prodotto dello stato di impotenza psichica del poppante, stato che naturalmente corrisponde alla sua impotenza biologica (…). Anche la sua successiva trasformazione, la paura di evirazione che subentra nella fase fallica, è un’angoscia di distacco, ed è legata alla stessa condizione. Il pericolo è qui una separazione dal genitale (…).
Con lo spersonalizzarsi della istanza dei genitori, da parte dei quali si temeva l’evirazione, il pericolo diventa indeterminato. La paura di evirazione si evolve in angoscia morale. Non è più facile, adesso, stabilire che cosa l’angoscia tema (…). Espresso più in generale, ciò che l’Io considera come un pericolo e a cui risponde col segnale di angoscia è l’ira, la punizione del Super-Io, la perdita dell’amore da parte di questo. Ultima metamorfosi dell’angoscia di fronte al Super-Io mi è sembrata essere la paura di fronte alla morte (o di fronte alla vita), l’angoscia di fronte alla proiezione del Super-Io nelle forze del destino”. (S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, 1925).

Nonostante il nostro Io si strutturi, si sviluppi, si accresca e si perfezioni nello stampo della autosufficienza, esiste un lievito, mescolato male all’impasto, che ci sciupa la torta. Crea un bozzolo in cottura. È l’angoscia bambina, la meno formale.
Quando abbiamo finito tutti i nemici (l’amore che ci manca, i genitori che ci castrano, la società che non ci capisce) non ci resta che tornare ai Santi Vecchi. Noi torniamo bambini mano a mano che riusciamo a invecchiare, e anche l’angoscia fa lo stesso, torna a essere la bambina di un tempo, nei vestiti di un anziano. Torna dunque ad essere risposta alla percezione del pericolo della inerzia (vuoi che sia quella della morte o peggio ancora quella della vita). Il cervello esulta, riconosce subito questo nome dell’angoscia, sa di averlo letto da qualche parte. E mentre il cervello giubila per la finezza della sua conoscenza, il midollo riceve, sente, la ri-conosce dall’odore.

“I progressi dell’evoluzione dell’Io contribuiscono certo a svalutare e a mettere da parte la situazione di pericolo anteriore, cosicché si può dire che a una determinata età dello sviluppo sia assegnata una corrispondente e adeguata situazione dell’angoscia. Il pericolo dell’impotenza psichica conviene all’età dell’immaturità dell’Io, come il pericolo della perdita dell’oggetto alla mancanza di indipendenza nei primi anni infantili, il pericolo d’evirazione alla fase fallica, l’angoscia del Super-Io all’epoca di latenza. Ma tutte queste situazioni di pericolo e condizioni di angoscia possono anche continuare a persistere l’una accanto all’altra”. (S. Freud, Inibizione , sintomo e angoscia, 1925).

Non è una grande novità, cresciamo, sviluppiamo, crediamo di andare avanti, ma la vita è un cerchio. Alla fine trovi quello che eri. Spera solo di avere cambiato gli occhi, perché l’immagine sarà la stessa. Così è per l’angoscia, alla fine torna ad essere quella che era, passando di fase in fase lungo lo stesso sentiero lungo il quale si era evoluta. Toccata la cima massima della angoscia sociale (capirai, il timore di non essere all’altezza) si ritorna alla paura della evirazione (mai visto un adulto impegnato in questa lotta? Uno spettacolo imbarazzante. Dovrebbero segnalarlo come intento accanto al nome del Deejay nel programma serale di qualche discoteca per quarantenni). Superata questa fase, con gli scampoli di dignità rimasta, si ritorna alla paura di perdere l’amore altrui (questa volta senza la scusa della sopravvivenza) e di nuovo alla prima, l’angoscia dell’inerzia psichica, del non senso.
Niente di nuovo sul fronte occipitale.

A caval Donato non si guardi in bocca

“L’angoscia delle zoofobie è dunque una reazione affettiva dell’Io al pericolo. Il pericolo che qui viene segnalato, è quello dell’evirazione. Unica differenza rispetto all’angoscia reale, che l’Io manifesta normalmente in condizioni di pericolo, è che il contenuto dell’angoscia rimane inconscio e diventa cosciente solo in guisa deformata”. (S. Freud, Inibizione , sintomo e angoscia, 1925).

L’angoscia è bambina e come tale ama inventarsi parole nuove per dire concetti vecchi. Freud è il salmone della psicologia, che ama risalire alle Fonti, e quando ancora il bambino psichicamente nemmeno esisteva, lui guarda dentro il bambino Hans. Hans è un bambino che diceva di avere paura dei cavalli.
Il caso è esemplare se si intende parlare di angoscia, nel suo terzo goffo atto: paura dell’evirazione. Il piccolo scaltro Hans tenta di riprendersi da questa caduta di stile con un intelligente escamotage, tuttavia, diversamente da tutti noi, ha davanti il Dottor Freud, medico di famiglia leggermente più scafato dei nostri pediatri con le tonsille al posto dell’inconscio.
Infatti il dottor Freud si mette a parlare con la fobia, non le intima di andarsene ma le chiede il perché. Il tempo di un caffè (decaffeinato), l’angoscia è infatti una vecchia e non aspetta altro che un medico che abbia tempo per ascoltarla (a partire dall’inizio).
Hans non sa di preciso come dirlo (ha tre anni), ma sente. Individua la parola “cavallo”. Individua l’oggetto “cavallo”. Non è forse ammirevole? Almeno è un tentativo, ci sono adulti che singhiozzano di vocabolario, eppure non oserebbero tanto. Hans trova un bersaglio. Il suo dottore (beato lui) guarda dentro, è uno che ha la pazienza di parlare con i bambini e con i cavalli. È vero, forse la dimestichezza con i simboli è una qualità innata o difficile da apprendere, ma al Dott. Freud non mancava nemmeno la pazienza.
E soprattutto, le buone maniere.

“L’angoscia mostra una spiccata tendenza a evolversi in fobia, di modo che, a un certo punto, il paziente può anche riuscire a sbarazzarsi di tutte le sue angosce, ma soltanto assoggettandosi a inibizioni e limitazioni di ogni genere (…). sono proprio queste strutture difensive che si manifestano a noi sottoforma di fobie, e appaiono ai nostri occhi come l’essenza della malattia”. (S. Freud, 1909, Il piccolo Hans).

Se l’angoscia persiste, consultare il medico

Se ti si ammala l’angoscia, allora sarai nevrotico. I sintomi della nevrosi (i più vari) sono comunque tutti prodotti per sottrarre l’Io al pericolo e “se la formazione sintomatica viene impedita subentra veramente il pericolo. Si stabilisce quella situazione analoga alla nascita in cui l’Io si trova impotente contro la pretesa pulsionale ognora crescente, ossia la prima e più originaria di tutte le condizioni di angoscia.
Pretesa pulsionale? Viene l’angoscia solo a sentirla rammentare, qualsiasi cosa sia. Allora ho consultato un medico, vecchia scuola, Rank. Il Dottore suppone che la prima situazione di pericolo in assoluto è quella della nascita. Lo sconvolgimento che essa produce diventa il prototipo di ogni nuova situazione di pericolo (o di nascita, che dir si voglia). A leggere queste cose viene da chiedersi quando di preciso i Dottori hanno perso questa vena poetica.

“Studiando le condizioni inerenti all’angoscia, abbiamo dovuto guardare, per così dire, in una trasfigurazione razionale il modo in cui l’Io si comporta allorché si difende. Ogni situazione di pericolo corrisponde ad un’epoca della vita, o ad una fase evolutiva dell’apparato psichico, e appare giustificata per questo (…).
Il nevrotico si distingue dunque dal normale per il fatto che egli ingrandisce smisuratamente le reazioni a questi pericoli. Contro il ritorno della situazione traumatica originaria anche l’essere adulti non offre alla fine alcuna garanzia sufficiente. Vi è forse per ognuno un limite, oltre il quale l’apparato psichico non riesce a far fronte alle masse degli eccitamenti che richiedono di essere risolti”. (S. Freud, Inibizione , sintomo e angoscia, 1925).

Chi avrebbe mai detto che le masse degli eccitamenti chiedessero di essere risolte! Avrei giurato volessero essere soddisfatte, tamponate, soffocate o liberate. Mai “risolte”. Bastava ascoltarle. In effetti, per saggezza midollare, nessun bambino che piange vuole essere accontentato, ma confortato.