Residence Fragile: la Comunità Terapeutica nel mondo della fragilità, tra cura e prevenzione

Un confronto con Ivo Lizzola

“Il Signore disse a Mosè: “Riferisci agli Israeliti: voi siete un popolo di dura cervice; se per un momento io venissi in mezzo a te, io ti sterminerei.
Ora togliti i tuoi ornamenti e poi saprò che cosa dovrò farti”.
(Es. 33, 5-6)

Una immagine biblica, inaspettata, misteriosa, quella che porto via oggi dall’incontro con Ivo Lizzola, interrogato da noi operatori di Comunità sul nostro fare “residenzialità”. Il Professore paragona il nostro “tempo” di operatori sociali a quello in assoluto più scomodo e meno glorioso descritto dalla Bibbia: il tempo dell’Esodo. Un tempo di mantenimento, di passaggio, la cui identità risiede proprio nell’essere “lo spazio di mezzo”. Un tempo che non vuole protagonismi, ma solo “gruppo”, un tempo che diventa spazio solo per chi sa fondersi con gli altri.
Non ci sono eroi nell’Esodo. L’eroe è il popolo. Un popolo meschino, incapace di fede, provato dal fuoco della strada, un popolo smascherato, un popolo “vero per forza”, non perché volesse esserlo ma perché non può che esserlo. Un popolo che sa di dover provvedere allo svolgimento della parte più vigliacca della storia: la parte che non vuole fare nessuno, il pezzo a piedi, l’attraversamento. Qualcuno lo deve pur fare, non tutti abbiamo la fortuna di capitare al principio o alla fine di una storia. A noi tocca il mezzo, lo svolgimento. E non ci è dato tempo per ripensare al passato, né spazio per adagiarsi nel futuro. La strada è dura e sia i ricordi che i sogni prendono posto nella sacca e pesano sulla schiena.
Camminiamo a testa bassa, su un terreno polveroso e dissestato, concedendoci attenzione al singolo passo che muoviamo, né quello prima né quello dopo, ma solo quello che si compie proprio adesso. Ecco il massimo della lungimiranza che possiamo permetterci.
Con noi lo stretto necessario, gli orpelli si perdono lungo il cammino o si abbandonano strada facendo. Simboli che prima avevano un senso giacciono come morti per terra: lungo la strada, ha senso solo ciò che serve.
Ci si guarda fugacemente con gli altri, visi induriti dal sole che sembrano tutti uguali e lo siamo. In questo pezzo di storia non conto “io” o “tu”. Conta il popolo, conta che si arrivi, conta portare avanti la storia della salvezza, che non è una faccenda personale, è una cosa di tutti.

Ecco come pochi giorni fa Ivo Lizzola ci spiegava noi stessi meglio di noi stessi. Ci racconta di compagne a noi care, la “complessità” e la “fragilità”, ci parla dei nostri usuali campi di battaglia, ci descrive nei dettagli le nostre quotidiane trincee, esattamente come uno di noi. Uno del popolo. Uno che conosce il nostro lembo di terra in ogni sua singola piega, uno che la ama e la odia, quella terra, proprio come ognuno di noi.
Ci racconta i fatti nostri come se in questi anni fosse stato in cammino insieme a noi, avesse cenato con noi, rassettato le tende insieme a noi. Come se ogni giorno si fosse preso cura delle bestie, insieme a noi, e curato le provviste, come noi. Come se ogni giorno si fosse lamentato insieme a noi dell’asprezza della strada, delle promesse non mantenute di chi ci guida, come se ogni tanto avesse osato tradire il vero Dio, per un idolo, come noi. Come ognuno di noi la sera ha sognato, in cuor suo o con qualche altro, di essere proprio noi quelli che alla terra promessa ci arriveranno, immaginando che allora ci potremo riposare, che avremo riconosciuto il nostro merito. Come noi, lungo la strada, ha gettato a poco a poco via tutto quello che in Egitto serviva, ma non certo lungo la strada.
Per strada non curi con le “diagnosi”, con i “protocolli”, con le “buone prassi”. A sentirle adesso sono cose che fanno quasi ridere. A dirla tutta per strada nemmeno “curi”, semmai ti prendi cura, e lo sai fare solo se almeno una volta qualcuno si è dovuto prendere cura di te.
Ci siamo disfatti ad una ad una delle nostre certezze, anche di quelle che fino all’ultimo abbiamo tenuto al sicuro in fondo alla sacca. Però adesso lo sappiamo: la strada ci ha alleggerito, non impoverito. Siamo naso a naso con bisogni tanto primari da non avere nemmeno parole per dirli.
Ci siamo rimessi alla scuola della strada, male non ci ha fatto. Non abbiamo meriti, non abbiamo scelto di farlo, siamo stati costretti. Però dei “costretti” siamo le sentinelle, siamo quelli partiti tra i primi. Ne vedremo tanti raggiungerci e li riconosceremo, grotteschi, ancora aggrappati agli oggetti utili alla vita di prima, ancora in lotta con la strada, ancora ignari della liberazione data dalla resa. Ancora impegnati a non sporcarsi i vestiti, come se quei vestiti ci servissero ancora.
Non siamo particolarmente intelligenti, tutto quello che sappiamo ce lo ha insegnato la strada, anche se noi no volevamo, anche se abbiamo protestato, fatto resistenza, anche se credevamo di sapere già abbastanza, anche se credevamo di non averne bisogno, lei ci ha piegati perché non poteva che essere così, il nostro merito è uno e solo uno, che ci siamo, che non siamo morti.
Ormai abbiamo imparato a lavorare camminando, non sapremmo fare che questo. I nostri “malati” avevano provato a insegnarcelo da tempo, a dirla tutta, ma abbiamo dovuto sperimentare la scuola della strada per accettare il loro insegnamento e chiedere umilmente qualche ripetizione di sopravvivenza per strada, di convivenza col diverso, di necessità della contraddizione.
Ci siamo vergognati per troppo tempo dell’unica cosa che sappiamo fare veramente bene: abitare il limite, sopportare l’impotenza, significare il complesso. La strada bastona ma purifica anche, depura da ogni inutile vezzo. Ivo Lizzola ci ha detto che per strada bisogna saper essere uomini leggeri. Va bene, lo sappiamo essere. Infondo ogni momento è buono per fare festa la sera, quando non hai ieri, né domani. Quando non hai nessun posto dove andare, ma solo il viaggio stesso, la festa te la puoi permettere quando ti pare.